Uno scenario apocalittico sul futuro della Terra
Il protocollo di Kyoto è considerato ormai uno strumento
vecchio e inefficace. Gli effetti del riscaldamento globale potrebbero
durare sulla terra per oltre un millennio. Ma la comunità scientifica
mondiale non ha certezze
«Nelle
cose naturali, l’autorità di uomini non vale nulla …
La natura ….. si burla delle costituzioni e decreti de’ principi,
degli imperatori e de’ monarchi, a richiesta dei quali
ella non muterebbe un jota delle leggi e statuti suoi».
Galileo
Galilei |
L’11
dicembre 1997, nella città giapponese di Kyoto, venne sottoscritto
da più di 160 paesi un trattato internazionale che prevedeva
la riduzione, in misura non inferiore al 5% rispetto alle emissioni
registrate nel 1990, di sei gas inquinanti ad effetto serra: Biossido
di Carbonio (CO), Metano (CH4), Ossido di Azoto (N2O), Idrofluorocarburi
(HFC), Perfluorocarburi (PFC) ed Esafluoro di Zolfo (SF6). Tale trattato,
però, a causa dell’art. 25 poteva entrare in vigore solo quando
fosse stato ratificato da non meno di 55 nazioni firmatarie, purché
le stesse producessero almeno il 55% delle emissioni totali del 1990.
Stati Uniti d’America ed Australia, che da soli emettevano rispettivamente
il 36.1% ed il 2.1% di tali gas, pur essendosi inizialmente dichiarati
favorevoli, non sottoscrissero mai il trattato, creando diverse difficoltà
nell’applicazione dello stesso, perciò la condizione imposta
dall’art. 25 fu raggiunta solo nel novembre del 2004 con l’adesione
della Russia.
Qual è lo stato di fatto oggi? Il 16 novembre 2006, al vertice
sul clima di Nairobi, Kofi Annan denuncia che il protocollo di Kyoto,
entrato in vigore il 16/02/2005 dopo l’adesione della Russia e non
ancora ratificato dagli USA e dall’Australia, è uno strumento
ormai vecchio e del tutto inefficace, anche qualora fosse attuato
interamente da tutti i paesi firmatari, poiché non considera
né l’incremento delle emissioni mondiali di CO2 né l’esplosione
industriale di India e Cina, avutesi negli ultimi dieci anni. Appena
qualche giorno prima, il rapporto commissionato dal Governo britannico
all’ex dirigente della Banca Mondiale Nicholas Stern, aveva sorpreso
il mondo quantificando i danni economici dei cataclismi, causati dalle
variazioni climatiche, in oltre il 20% del PIL Mondiale.
Nei mesi appena precedenti si alternarono notizie sporadiche sullo
scioglimento progressivo delle calotte polari che, a causa dell’effetto
serra, innalzano il livello dei mari mettendo a rischio numerose coste
e la vita di specie animali protette, come gli orsi bianchi, seguite
da allarmi per la navigazione marittima a causa della deriva di grossi
Iceberg nell’oceano, anche di parecchie decine di Km, staccatisi dall’Artico
per l’innalzamento delle temperature polari.
Il 24 dicembre 2006, il giornale “The Independent” annuncia la scomparsa
di Lohachara, un’isola tropicale cancellata dall’innalzamento dei
mari a causa del surriscaldamento globale, la prima abitata che subisce
tale destino, almeno nella storia documentata dall’uomo, altre isole
risultano ora in pericolo e si teme non solo per le popolazioni che
vi abitano, ma anche per gli animali autoctoni in via di estinzione,
come 400 esemplari di Tigre indiana che vivono in alcune isole a rischio
nella regione del Sundarbans, dove Gange e Brahmaputra sfociano nella
baia del Bengala.
Il 6 Gennaio 2007 il “Financial Time”, lancia l’“allarme clima” mettendo
in risalto veri scenari apocalittici entro il 2070, specie per il
Sud Europa, elencando disastri come siccità, impoverimento
del suolo, incendi, desertificazione, epidemie, pandemie, terrorismo,
crack economici, che causeranno fino a 87.000 morti l’anno in tutta
Europa. L’articolo si riferisce ad un documento inviato dalla Commissione
Europea al Consiglio dei capi di Stato, di Governo ed al Parlamento
europeo: il “Limiting Global Climate Change to two degrees Celsius
– Policy Options for the EU and the world for 2020 and beyond”, in
cui è contenuto il rapporto “Global risks 2007” del World Economic
Forum.
Il 10 gennaio 2007, la Coldiretti annuncia che vi saranno enormi danni
alla floricoltura e a tutta l’agricoltura, nel corso dell’anno 2007,
a causa della fioritura anticipata di mimose e ginestre, della prematura
gemmazione di albicocchi, susini e mandorli, e della crescita imprevista
del grano della pianura padana fino a 15-20 cm. Tali effetti negativi
saranno ulteriormente aggravati dalla siccità cagionata dalle
scarse precipitazioni di un autunno-inverno latitante.
Sempre il 10 gennaio, il National Climatic Data Center, agenzia governativa
USA, conferma ufficialmente che il 2006 è stato l’anno più
caldo mai registrato in America da 112 anni, ossia da quando si è
iniziato a raccogliere dati climatici. Nello stesso giorno, l’Osservatorio
Geofisico dell’Università di Modena e Reggio Emilia, ha annunciato
che il 12° mese del 2006, con una temperatura media di 6.9°C,
è stato il dicembre più caldo dal 1860 e forse dal 1830,
confermando l’intero anno 2006 come il terzo più caldo ed il
quinto più siccitoso dal 1830.
Venerdì 19 gennaio 2007, Kyrill, un ciclone extratropicale,
si scatena sul continente europeo con raffiche di vento fino a 225
Km/h, tempeste di pioggia e neve, causando oltre 40 morti e danni
per milioni di Euro, mentre in Italia, a causa del conseguente aumento
della pressione atmosferica, si raggiungono temperature che in alcune
città superano anche i 25° C. Non si ricorda un fenomeno
uguale a memoria d’uomo!
Venerdì 2 febbraio 2007, fonti ANSA comunicano che gli esperti
del gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc – Intergovernmental
panel climatic change), riuniti a Parigi, hanno pubblicato un rapporto
sul clima, frutto di un approfondito studio scientifico promosso dalle
Nazioni Unite, nel quale si parla di un probabile aumento della temperatura
terrestre tra 1.8 e 4.0°C entro il 2100, con un incremento del
livello degli oceani, a fine secolo, tra un minimo di 19 ed un massimo
di 58 cm, si suppone che, con buona probabilità, la causa di
tutto ciò sia da attribuire all’immissione in atmosfera dei
gas serra causati dalle attività umane. Secondo tale rapporto,
gli effetti del riscaldamento globale potrebbero durare sulla terra
per oltre un millennio, anche se ipoteticamente si riuscissero ad
eliminare immediatamente tutte le emissioni antropiche. È giustificato
l’allarmismo più volte risaltato ed enfatizzato dalle testate
giornalistiche?
La comunità scientifica mondiale non ha certezze ed è
più che mai divisa. Alcuni scienziati si dichiarano in disaccordo
con le conclusioni dei molteplici studi pubblicati, da loro considerati,
a volte, privi di fondamento o anche pilotati da forti interessi politici
ed economici, ma molti di più, ormai, sostengono che le variazioni
climatiche sono una realtà alla quale dobbiamo far fronte senza
ulteriori indugi.
Il nostro pianeta, nei suoi 4.750 milioni di anni d’età, ha
già affrontato sconvolgimenti e variazioni geoclimatiche migliaia
di volte, per i più svariati motivi: impatti di meteoriti,
eruzioni vulcaniche, deriva dei continenti, geotettonica e chissà
quanto altro. Queste mutazioni climatico-ambientali, nelle ere, hanno
favorito la nascita e l’affermazione della vita, e sono state il motore
principale dell’evoluzione, favorendo le specie più adatte
ai nuovi habitat, ma ostacolando ed estinguendo quelle più
specializzate, che ben si erano affermate nelle condizioni ambientali
precedenti.
I mutamenti climatici, quindi, sono processi del tutto naturali, frutto
di variazioni chimiche, fisiche ed evolutive che si originano nell’atmosfera,
nell’idrosfera, nella geosfera ma anche nella biosfera.
Oggi, ad esempio, possiamo respirare l’aria anche grazie al lavoro
di organismi marini unicellulari, i cianobatteri, che in oltre 1000
milioni di anni, hanno accumulato nell’atmosfera ossigeno (un gas
tossico per gli organismi primordiali), attraverso una delle prime
rivoluzioni dell’evoluzione: la fotosintesi clorofilliana.
Il problema attuale, però, nasce dalle velocità che
distinguono tali processi di trasformazione.
Se
nei primordi del nostro pianeta, per sviluppare naturalmente le condizioni
ambientali e meteoclimatiche necessarie per fare uscire i primi esseri
viventi dai mari, ci sono voluti più di 3 miliardi di anni
dalla comparsa delle prime forme di vita, e se molto più recentemente,
ovvero negli ultimi 2 milioni di anni, nel “mare nostrum” si è
comunque passati più volte da periodi distintamente tropicali
a periodi intensamente freddi, intervallando 4 grandi glaciazioni
della durata media di centomila anni cadauna con altrettanti periodi
interglaciali, oggi sembra, si sospetta e si teme, che le dinamiche
di questi processi possano divenire estremamente più veloci.
C’è da dire, comunque, che nella storia umana si sono registrate
diverse e più recenti mutazioni climatiche, di cui solo da
poco, se ne ha consapevolezza.
Ricordo, ad esempio, che l’ultima glaciazione, la Wurmiana, è
terminata solo 10 mila anni fa in un brevissimo periodo di tempo,
quantificabile in poco più di un secolo, quando l’uomo attuale
già viveva organizzato in tribù e villaggi sparsi tra
l’Africa ed il Medio Oriente ed aveva forse già innalzato la
prima città della storia: Gerico.
Successivamente ci sono state altre mutazioni climatiche, ancora più
brevi e veloci, alternando periodi torridi con periodi freddi. Non
sempre ne sono chiari i motivi, forse per variazioni nel ciclo solare,
forse per eruzioni vulcaniche particolarmente intense, forse anche
in passato per le pressioni antropiche (bonifica di terre, deforestazione,
sviluppo di nuove tecnologie, ecc..). Sembra, infatti, che in epoca
romana, fino al tardo medioevo, le temperature fossero molto più
miti rispetto ad oggi, tanto che alcuni ghiacciai alpini non erano
ancora apparsi, mentre dal 16° secolo si sia entrati in una sorta
di piccola glaciazione che ha portato in Europa temperature più
rigide, con inverni più lunghi e freddi, congelamenti stagionali
di fiumi come il Tamigi ed il Danubio, l’isolamento della Groelandia
dal continente per più di 50 anni e la conseguente morte di
numerose persone.
Vi sono, però, dinamiche indotte dall’uomo che oggi destano
ragionevoli preoccupazioni: dall’inizio dell’epoca industriale, ad
esempio, si sono sfruttati intensivamente grossi depositi geologici
di carbone e petrolio, dove si erano fissati ed accumulati naturalmente
enormi quantitativi di Carbonio atmosferico primordiale, prelevati
nel Carbonifero in più di 60 milioni d’anni da gigantesche
ed antiche foreste. Ciò ha causato l’immissione nell’atmosfera
moderna di grossi quantitativi di gas, come NO2, idrocarburi vari
e CO2, aumentando la concentrazione di quest’ultima dai 280 ppm, nel
XVII° secolo ai 380 ppm del 2005, con un incremento ultimo di
2 ppm annui.
Attualmente le attività umane liberano nell’atmosfera 25 miliardi
di tonnellate di CO2 ogni anno, mentre il pianeta riesce a riassorbirne,
con il ciclo del carbonio (fotosintesi e deposizione calcarea marina),
meno della metà. Ciò compromette la capacità
del globo di disperdere nello spazio gli infrarossi, provenienti direttamente
dalla nostra stella o generatisi dall’assorbimento terrestre/marino
delle altre radiazioni solari. Si stima, infatti, che il calore terrestre
attuale sia il risultato di un irraggiamento medio ottenuto dalla
somma di ca. 170 Watt/m2 per l’effetto serra naturale
(se non ci fosse le temperature medie della terra sarebbero di molto
inferiori allo zero grado centigrado), di ca. 2,0 W/m2
per l’effetto serra d’origine antropica, e di ‘soli’ 0,45
W/m2 per l’irraggiamento solare e geotermico assieme.
Tutto ciò ci dà un’idea delle dimensioni reali del problema.
Il Comitato Glaciologico Italiano, che effettua rilievi sui ghiacciai
italiani dal 1895, fornisce ulteriori evidenze registrando, dall’inizio
del ’900, una perdita dei ghiacci nazionali del 40% in massa, un innalzamento
del limite delle nevi di circa 100 m, la scomparsa di molti piccoli
ghiacciai, un frazionamento di quelli maggiori ed un arretramento
del fronte di quest’ultimi di anche 1-2 Km.
Si stima che i ghiacciai italiani, rispetto agli anni ’80, si ridurranno
del 50%, in volume, entro il 2025 ed oltre al 90% entro il 2100.
Nel centro d’Europa le cose sembrano non andare meglio, infatti, il
grande ghiacciaio dell’Aletsch, (23 Km di lunghezza per una superficie
complessiva di 86 Km quadrati), subisce un arretramento annuale di
50 metri e, negli ultimi anni, le guide alpine locali hanno dovuto
cercare un nuovo accesso perché il vecchio non era più
percorribile, a causa della fusione dei ghiacci. Molti altri grandi
ghiacciai del pianeta stanno ritirandosi in modo ugualmente preoccupante.
Tutti
questi dati, e molti altri più squisitamente tecnici, stanno
progressivamente convincendo, buona parte degli scienziati, sulla
sufficienza d’indizi per ritenere che l’uomo stia influenzando in
modo concreto le condizioni climatiche del pianeta.
Attraverso l’accelerazione dei processi naturali, che senza gli impatti
antropici sarebbero molto più lenti, si darebbe avvio ad una
serie di squilibri nel sistema chimico-fisico planetario, che scatenerebbero
risposte termodinamiche di tipo globale sempre più estreme
e violente.
Nessuno ha certezze scientifiche su quello che potrebbe accadere realmente
in un prossimo futuro, vi sono ipotesi pessimistiche ed altre più
rassicuranti, ma nel rispetto del principio di precauzione,
come definito nell’art. 15 della Dichiarazione di Rio de Janeiro del
1992, si deve ad ogni modo agire per mitigare un fenomeno che potrebbe,
in ogni caso, portare ad effetti di danno (ambientale, sanitario,
sociale, economico) irreversibili.
Allora cosa possiamo fare? In attesa che i governi mondiali si mettano
d’accordo e la politica decida sulle reali priorità del pianeta,
tutti, nel nostro vivere quotidiano, possiamo contribuire al miglioramento,
con abitudini di vita differenti che possono fare risparmiare risorse
ed energie, diminuendo contemporaneamente dissipazioni e prodotti
di scarto.
Dobbiamo smettere di pensare al benessere come ad uno sviluppo economico
che esalta solo la crescita di produttività e l’incremento
dei consumi o, per meglio dire, spinge ad inutili e quanto mai dannosi
sprechi.
Purtroppo abbiamo, a livello globale, dirigenti e capi di stato del
tutto inadeguati al ruolo attivo che devono svolgere, molto più
affini al prestigio mediatico ed agli interessi di pochi potenti che
alle esigenze dell’intera umanità.
La rivoluzione culturale, quindi, deve essere spinta e sostenuta,
il più possibile, dalle fondamenta della piramide sociale,
attraverso la crescita culturale della popolazione, la promozione
di nuovi indirizzi economici e di mercato. D’altronde lo sviluppo
cosiddetto ‘sostenibile’ può vertere anche nell’applicazione
di tutte quelle tecnologie e di tutti quei sistemi che migliorano
le rese, risparmiano le risorse e sfruttano meglio energie differenti.
In esso, quindi, si possono ritrovare anche quelle specifiche professioni
con particolari competenze tecniche, come le nostre, in grado di occuparsi
di architettura sostenibile, risparmio energetico, bioedilizia, certificazione
di edifici, controlli ambientali, pianificazione territoriale, impianti
di depurazione, generatori eolici, pannelli fotovoltaici, biocarburanti,
bioreattori, geotermia, idroelettrica, fototermia, termovalorizzazione,
elettrochimica e chissà quante altre innovazioni ancora da
scoprire, promuovere o sfruttare in tutta la loro potenzialità.
Su tali considerazioni credo vi siano ancora molti campi totalmente
inesplorati nel nostro paese, specie nelle strategie di marketing,
dove manca un’opportuna promozione di tecnologie già esistenti
ma ancora poco sfruttate, verso le quali pure gli ingegneri tecnici
possono distinguersi, fornendo il loro importante contributo, non
solo professionale ed economico ma anche, e soprattutto, in campo
ecologico.
Ora più che mai la nostra categoria deve dimostrare coraggio,
versatilità ed adeguate competenze tecniche, fornendo un importante
e fondamentale apporto alla popolazione ed all’ambiente. Se c’è
un futuro su cui vale la pena investire è questo, non si può
aspettare oltre e vi è un duplice vantaggio, da una parte nel
contributo attivo degli ingegneri tecnici sulle azioni per contrastare
i fenomeni che danno origine all’inquinamento ed alla sovrapproduzione
di gas serra, dall’altra la possibilità di entrare in una nicchia
di mercato innovativa ed ancora poco sfruttata.
Bibliografia
Stefano Sghedoni
Folio n.4 - aprile 2007
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