PROTOCOLLO
DI KYOTO:
IL
RUOLO DELLA RICERCA SCIENTIFICA
L’esigenza
di intensificare gli sforzi di ricerca su aspetti che presentano
ancora evidentissime lacune di conoscenza. L’opinione di Vincenzo
Ferrara, responsabile 'Progetto Speciale Clima Globale' dell’Enea.
Le
problematiche complessive sul tema del clima globale e dei cambiamenti
climatici, in relazione alle possibili interferenze provocate dalle
attività umane, possono essere suddivise in tre aspetti fondamentali:
un aspetto di analisi e valutazione di impatto ambientale e
socioeconomico, per capire quali potrebbero essere a seguito di
ipotetici cambiamenti climatici le conseguenze sull’ambiente
naturale e antropico e sul benessere delle popolazioni; un aspetto di
natura tecnico-politica per mettere a punto idonee tecnologie
industriali, produttive e di protezione dell’ambiente e per
individuare le necessarie strategie di sviluppo socioeconomico; infine
un aspetto di ricerca scientifica sul sistema climatico e sulle
complesse inter-relazioni tra le sue componenti. Quest’ultimo
aspetto è forse, al momento, il più importante dei tre. Il
protocollo di Kyoto e, più in generale, lo stesso dibattito sul clima
globale, pongono infatti importanti questioni che da un lato prevedono
azioni di grande impatto economico e sociale, dall’altro si basano
su ipotesi con ampi margini di incertezza e discrezionalità. Il mondo
della ricerca scientifica è dunque direttamente sollecitato a dare
risposte concrete su aspetti che presentano evidentissime lacune di
conoscenza. “Prevedere il comportamento del sistema climatico –
afferma Vincenzo Ferrara, responsabile del progetto speciale Clima
Globale dell’Enea - rappresenta al momento una delle principali
sfide scientifiche dell’umanità. La coesistenza di processi a
catena aperta di causa-effetto (processi detti lineari) e di processi
di feed-back che sono i invece a catena chiusa (non lineari) rendono
lo studio del clima, e in particolare la sua evoluzione, estremamente
difficile. Nei sistemi complessi, infatti, piccole cause, o
addirittura cause ritenute assolutamente trascurabili, possono
innescare effetti enormi ed inimmaginabili, dovuti a certi eccanismi
di amplificazione esistenti nei processi non lineari di feed-back e,
viceversa, cause che all’apparenza possono sembrare catastrofiche si
possono risolvere, invece, con effetti finali trascurabili se i
meccanismi di feed-back sono di tipo omeostatico, cioè tendono ad
annullare le cause di squilibrio”. “Analizzare gli andamenti del
clima e prevederne la sua futura evoluzione - aggiunge Ferrara - è un
compito difficile anche per un altro motivo: non conosciamo ancora in
modo sufficiente molti processi e sono del tutto sconosciuti i
comportamenti di alcuni meccanismi di feed-back. Inoltre mancano anche
adeguati strumenti per studiare a fondo i problemi: una grossa
limitazione, ad esempio, è dovuta al fatto che non disponiamo di
calcolatori con l’enorme potenza di calcolo necessaria per poter
descrivere e tenere sotto controllo tutti i processi che avvengono nel
sistema climatico e tutte le loro inter-relazioni. Ma non sono del
tutto sufficienti nemmeno gli attuali strumenti matematici di
rappresentazione della realtà. Per esempio le equazioni matematiche
descrivono bene i fenomeni di causa-effetto, ma non i quelli di
feed-back, e per tentare di descrivere la complessità reale e
prevederne l’evoluzione si ricorre spesso a complicatissimi
algoritmi di difficile soluzione, oppure a semplificazioni che portano
a risultati non sempre attendibili”. Per comprendere appieno le
difficoltà di cui parla Ferrara, vale ricordare che non si deve
confondere il clima con i fenomeni meteorologici.
Previsioni
climatiche e meteorologiche
Per “clima” normalmente si intende l’andamento medio su lunghi periodi
di tempo (almeno 25 anni) delle condizioni del tempo (atmosferico)
e dei fenomeni meteorologici in relazione a caratteristiche geografiche,
umane o naturalistiche, cioè si considerano essenzialmente gli aspetti,
che riguardano l’atmosfera, correlati con le relative conseguenze
sul benessere fisiologico dell’uomo o sullo stato del suolo oppure
sulle prevalenti tipologie di vegetazione. Esempi tipici sono costituiti
dalle numerosissime classificazioni climatiche reperibili in letteratura,
che considerano, appunto tali aspetti: per esempio clima marittimo
e continentale, clima subtropicale, clima arido o desertico, della
tundra o della savana, clima temperato caldo o freddo eccetera. Storicamente
sono stati i geografi ed i naturalisti a studiare per primi il clima,
in termini di correlazioni statistiche meteorologiche, come causa
fondamentale della diversificazione degli ambienti locali e territoriali
osservati e come elemento di definizione e di classificazione geografica
e naturalistica. In questo contesto, il clima viene inteso come causa
e non anche come effetto dell’ambiente e della natura circostante,
compresa la componente umana, ritenendo irrilevanti le influenze e
le retroazioni sul clima, sia dell’ambiente (naturale ed umano), sia
della natura del territorio. Nella tradizione popolare e nell’opinione
pubblica, inoltre, c’è sovente l’abitudine a confondere la meteorologia
con la climatologia, senza distinguere condizioni meteorologiche,
anche persistenti, dalle situazioni climatiche, oppure interpretando
le anomalie meteorologiche come cambiamenti climatici. L’enfasi e
le interpretazioni allarmistiche di cambiamento climatico che i media
danno ogni volta che si verifica un fenomeno meteorologico stagionalmente
atipico ne sono una evidente dimostrazione. In realtà, il clima è
lo stato di equilibrio energetico tra il flusso totale di energia
entrante sul nostro pianeta (energia solare), ed il flusso totale
di energia che ne esce (radiazione solare riflessa da atmosfera, suolo
e nubi, ed energia irraggiata dalla Terra nel suo insieme). Se l’energia
entrante cambia (per esempio per variazioni dell’energia solare, per
la precessione degli equinozi, per le variazioni dell’eccentricità
dell’orbita terrestre eccetera), cambia il bilancio energetico sul
nostro pianeta e, quindi, cambia il clima. Se cambia l’assetto delle
terre emerse e dei mari (deriva dei continenti), lo stato e la rugosità
della superficie terrestre, lo stato e i grandi movimenti degli oceani
eccetera, cambia il bilancio energetico del nostro pianeta e, quindi
anche il clima. Il nostro pianeta è in pratica una enorme macchina
termica che assorbe energia dal sole, la trasforma e la rielabora
in varie forme e, poi, riemette nello spazio l’energia solare non
utilizzata e i residui energetici degradati. Questa enorme macchina
termica è il sistema climatico costituito da più componenti: atmosfera,
oceano, biosfera (inclusa la vegetazione, la biomassa e gli ecosistemi
terrestri e marini) e geosfera (inclusa la criosfera ed i sistemi
idrogeologici continentali). Tali componenti interagiscono incessantemente
fra loro scambiandosi flussi di calore, flussi di energia, e flussi
di materia. Le interazioni fra le componenti sono favorite da alcuni
cicli fondamentali che esistono in natura: soprattutto il ciclo dell’acqua
e quello del carbonio, ma anche i cicli dell’azoto e di altri composti
minoritari tra cui zolfo e aerosol. Il clima è dunque il risultato
dell’equilibrio energetico che si stabilisce nel sistema complesso
atmosfera/oceano/biosfera/geosfera, dove il termine “complesso” non
significa solo complicato, ma più precisamente un sistema dove non
ci sono solo fenomeni di causa-effetto, ma anche fenomeni di retroazione
(feed-back) tra effetti e cause che li hanno generati. Prevedere le
variazioni climatiche è dunque ben altra cosa che fare previsioni
del tempo: in quest’ultimo caso, infatti, si tratta di effettuare
valutazioni a breve termine che coinvolgono solo una delle componenti
climatiche (l’atmosfera) e con necessità di risolvere esclusivamente
problemi di causa-effetto. Che le previsioni del tempo siano realizzabili
solo a breve termine (una decina di giorni) dipende proprio dal fatto
che per periodi più lunghi potrebbero entrare in gioco feedback non
lineari dovuti alle altre componenti del sistema climatico. Ma se
vi sono le difficoltà a tutti note per effettuare previsioni relativamente
molto semplici, come la previsione del tempo a distanza di una settimana,
si possono comprendere gli enormi ostacoli che si pongono al tentativo
di prevedere i cambiamenti climatici a distanza di decenni.
Un’ottica di lungo termine
Anche per il breve termine, visto che il protocollo di Kyoto prevede
una serie di azioni immediate con l’obiettivo di ridurre al 2012 le
“emissioni nette”, vi sono problemi di conoscenza non trascurabili.
Ad esempio per una valutazione attendibile del bilancio tra quanto
viene emesso dalle attività umane verso l’atmosfera e quanto viene
assorbito e immagazzinato dai vari ecosistemi (sinks naturali); su
quale è il reale ruolo di eventuali sinks creati dall’uomo in relazione
a ogni singolo gas serra. Macroscopiche lacune di conoscenza vi sono
poi sul ruolo dei sistema nuvolosi, sul ruolo degli oceani, ove è
contenuta CO2 in quantità almeno 60 volte maggiore, e su molto altro
ancora. Ma il problema vero è che, in ogni caso, ammesso che vi sia
una relazione diretta tra le emissioni antropiche e l’aumento di temperatura
del pianeta, le attuali azioni previste dal protocollo di Kyoto sono
del tutto trascurabili per una inversione di tendenza. Per raggiungere
la stabilizzazione delle concentrazioni in aria dei gas serra, considerati
in termini di anidride carbonica “equivalente”, la condizione necessaria
è che le “emissioni nette”, cioè il bilancio tra quanto viene emesso
e quanto viene assorbito dai sistemi naturali, siano pari a zero.
Per raggiungere questa condizione di “equilibrio” secondo le valutazioni
più accreditate occorrerebbe tagliare subito circa il 60% delle emissioni
globali. È evidente che la riduzione del 5% prevista dal protocollo
entro il 2012 è quindi del tutto trascurabile. Lo stesso Ipcc ha sottolineato
il fatto che il protocollo di Kyoto non è in grado di risolvere nella
sostanza i problemi dei cambiamenti climatici di origine antropica,
anche se esso, dopo gli ultimi accordi sulla sua attuazione, può considerarsi
un successo politico ed un primo passo di cooperazione mondiale per
affrontare il problema. Dal punto di vista delle attività di ricerca
scientifica, invece, è opportuno guardare al protocollo con una ottica
a lungo termine, al fine di individuare le possibili vie di sviluppo
della ricerca scientifica. “Secondo le principali raccomandazioni
internazionali - sottolinea Ferrara - le linee portanti di queste
azioni scientifiche dovrebbero riguardare:
la ricerca
climatica e le osservazioni globali (analisi e previsioni climatiche
precise, ma anche definizione dettagliata di impatti e rischi);
nuove
e inesplorate fonti primarie di energia (sorgenti energetiche senza
emissione di gas serra);
nuovi
vettori energetici e fonti secondarie (oltre l’idrogeno, anche ulteriori
vettori energetici non contenenti carbonio: sembra esistano buone
prospettive anche per il boro e l’alluminio);
nuovi
modi di usare fonti e vettori energetici sia tradizionali che nuovi
(minimizzazione della intensità di carbonio nella produzione e nell’uso
di energia);
nuovi
sistemi e/o tecnologie di dematerializzazione (minimizzazione dell’intensità
energetica complessiva, cioè disaccoppiamento sviluppo-energia).
“A ben guardare - conclude Vincenzo Ferrara -l’unica alternativa realistica
sarebbe un grande sforzo comune a livello internazionale sulla ricerca
scientifica e tecnologica in grado di innescare una “rivoluzione”
energetica che renda lo sviluppo socio-economico dell’umanità indipendente
o quasi dai combustibili fossili. Il che vuol dire da un lato sviluppare
forti azioni sulla ricerca climatica e le osservazioni globali per
poter disporre di analisi e previsioni attendibili, con definizioni
dettagliate di impatti e rischi; dall’altro perseguire a livello sociale
e tecnologico uno sviluppo sostenibile, cioè esplorare e sviluppare
nuove fonti di energia, nuovi vettori energetici, nuove metodologie
d’uso e nuovi sistemi e tecnologie che minimizzino l’intensità energetica
complessiva”.
Bibliografia
Valter Cirillo
La Termotecnica - Giugno 2002